BRANI
Brano 1 (domande dalla 6 alla 10)
Architettura e cultura nella Francia del Rinascimento
Non è facile descrivere, valutare, interpretare il Rinascimento francese. Non crediamo più che in esso si debba vedere l’avvento puro e semplice,
in tutti i campi, della «modernità». Su tutti i punti in cui pensavamo di riconoscere le promesse dell’avvenire, l’autonomia politica, lo spirito di
osservazione, il recupero dell’arte antica, lo sviluppo della ricerca scientifica – il bilancio finale è molto più contraddittorio di quanto non si
credesse. Di qui, la ragionevole conclusione che l’effettiva novità stesse nella scoperta dei confitti e delle diversità, nel senso di contrasti che
spaventano o fanno sorridere, nelle lacerazioni interiori, di cui la crisi religiosa fu una delle manifestazioni più crudeli. Tuttavia, questa visione
non tiene a sua volta sufficientemente conto dello straordinario slancio di vitalità che investì, durante tutto il Cinquecento, l’intera società, con
indimenticabili riverberi nella letteratura e nell’arte. Di qui, il profondo imbarazzo degli storici, coscienti dell’impossibilità di ricondurre questo
immenso sviluppo ad una definizione efficace. Troppi sono gli aspetti del problema: la civiltà, di cui la Francia – come sempre – pretende di farsi
portatrice, è allo stesso tempo troppo ambiziosa (le «buone maniere», la «cortesia») e troppo solidale al passato medievale che persiste. Gli
intrecci del «pensiero simbolico» caratteristico dell’epoca sono stati fin troppo trascurati. Ovviamente non è possibile isolare gli episodi francesi
dal contesto europeo. Ma nello studio dei fenomeni artistici – il quadro, sia detto senz’ambagi, deve essere interamente rivisto e completato – si è
spesso abusato dei riferimenti a fonti e influenze.
Da oltre un secolo, sono due le linee interpretative che si alternano: il dinamismo degli esempi italiani scoperti grazie alle conquiste e, dall’altra
parte, l’azione dei modelli fiamminghi e renani diffusi attraverso il folgorante successo della grafica. Questi rapporti, che rimangono comunque
fondamentali, sono stati studiati e con profitto, ma sempre ipotizzando una sorta di sottomissione più o meno passiva ai modelli stranieri; la
conseguenza è stata quella d’avere trascurato un fattore essenziale, o che comunque sembra esserlo sempre di più.
I Francesi erano abituati ad essere gli artefici di tutte le mode dell’Occidente. Nel Quattrocento, le difficoltà della guerra all’estero e di quella
civile avevano duramente intaccato questo primato, senza però abolire nella coscienza dei potenti e delle élite l’idea di una superiorità nazionale,
che si sarebbe manifestata nuovamente. Gli scambi con gli ambienti italiani e con le botteghe settentrionali erano sempre stati complicati da
questa reazione istintiva. Si ha spesso l’impressione, ad esempio, che il ricorso da parte di scultori e maestri vetrai a modelli incisi da Dürer o da
Marcantonio avvalorasse la convinzione che quelle «impronte» non fossero che un contributo straniero al progresso dell’arte francese. Del resto,
gli smaltatori e i costruttori di cassoni creavano effettivamente elaborazioni inedite partendo dalle composizioni originali.
L’arte francese ha sempre operato un’«assimilazione selettiva» (la formula è quella di Erwin Panofsky), atteggiamento che presuppone una
solida autonomia e giustifica la disinvoltura o, se si preferisce, l’ingratitudine con cui allora trattava le sue fonti. Non ci si lascia mai suggerire del
tutto la strada da seguire.
Intorno a queste manifestazioni, che oggi ci stupiscono, si sono sviluppate alcune idee sui caratteri salienti del Rinascimento francese.
Innanzitutto, la concezione – molto più complessa e caotica di quanto non si creda solitamente – di un insegnamento di tipo nuovo, con la
prospettiva di un’ambiziosa «rivoluzione culturale» che era in sintonia, all’inizio, col pensiero di Erasmo.
Le decisioni che resero famoso Francesco I presupponevano un’analisi della società. Se diamo ascolto alle critiche degli italiani, l’aristocrazia
tradizionale era infatti tanto brillante quanto ignorante se messa a confronto con la nuova classe dei funzionari che includeva anche la nobiltà di
toga. È interessante controllare se e in che modo il pungente rimprovero alla nobiltà ha avuto conseguenze sul gusto, sull’architettura, sulle
collezioni. Anche se questo argomento affiora appena negli studi che seguono, esso ci ha permesso di individuare un tema di primo piano,
generalmente trascurato dagli storici della civiltà e della letteratura: l’ideale «cavalleresco», che sarebbe ingenuo credere fosse svanito con
l’avvento dei tempi nuovi.
Brano 2 (domande dalla 11 alla 15)
I generi letterari
L'idea di genere implica immediatamente diversi interrogativi: per fortuna taluni svaniscono non appena siano stati formulati in maniera esplicita.
Ecco il primo: abbiamo il diritto di discutere un genere senza aver studiato (o almeno letto) tutte le opere che lo costituiscono? Ma una delle
prime caratteristiche dell'indagine scientifica è che essa non esige, per descrivere un fenomeno, l'osservazione di tutte le sue istanze, e procede
molto più per deduzione. In pratica, si rileva un numero molto limitato di circostanze, se ne trae un'ipotesi generale e la si verifica su altre ipotesi,
correggendola (o rigettandola). Qualunque sia il numero dei fenomeni studiati (nel nostro caso, delle opere), non saremo pertanto maggiormente
autorizzati a dedurne leggi universali: non è la quantità delle osservazioni ad essere pertinente, ma soltanto la coerenza logica della teoria. Il piano
di generalità sul quale viene a trovarsi questo o quel genere pone un secondo interrogativo. Vi è soltanto qualche genere (ad esempio poetico,
epico, drammatico), o ve ne sono molti di più? I generi sono in numero finito o infinito? Un terzo problema è tipico dell'estetica. Ci dicono:
parlare di generi (tragedia, commedia ecc.) è vano, poiché l'opera è essenzialmente unica, singolare. L'opera vale per quanto ha di inimitabile, di
diverso da tutte le altre, e non per le somiglianze che ha con esse. Una posizione simile non è sbagliata nel vero senso del termine: è
semplicemente fuori luogo. Un'opera può benissimo piacere per una ragione o per un'altra: non è questo che la definisce come oggetto di studio.
Lo scopo che si prefigge un'attività di conoscenza non deve presiedere alla forma che in seguito essa assume. Il concetto di genere (o di specie) è
derivato dalle scienze naturali; ora, esiste una differenza qualitativa quanto al senso dei termini «genere» ed «esemplare» a seconda che vengano
applicati agli esseri naturali o alle creazioni dello spirito. Nel primo caso, la comparsa di un nuovo tipo non modifica necessariamente le
caratteristiche della specie; di conseguenza le sue proprietà sono interamente deducibili a partire della formula della detta specie. Sapendo che si
tratta della specie tigre, noi possiamo dedurne le proprietà di ogni tigre in particolare; la nascita di una nuova tigre non modifica la specie nella
sua definizione. L'azione dell'organismo individuale sull’evoluzione della specie è così lenta, che nella pratica possiamo farne astrazione. Lo
stesso vale per gli enunciati di una lingua (benché a un grado inferiore): una frase individuale non modifica la grammatica e la grammatica deve
permettere di dedurre le proprietà della frase. Lo stesso non vale nel campo dell'arte o della scienza. Qui l’evoluzione segue un ritmo del tutto
diverso: ogni opera modifica l’insieme dei possibili, ogni nuovo esempio cambia la specie. Potremmo dire che ci troviamo di fronte a una lingua
di cui ogni enunciato è agrammaticale nel momento della sua enunciazione. Più esattamente, noi non riconosciamo a un testo il diritto di figurare
nella storia della letteratura o in quella della scienza se non in quanto introduca un cambiamento nell’idea che ci facevamo fino a quel momento
dell’una o dell’altra attività. I testi che non soddisfano a questa condizione passano automaticamente in un’altra categoria: in quella della
letteratura detta «popolare», «di massa» nel primo caso; in quella dell’esercizio scolastico, nel secondo. Ma per tornare alla materia che è la
nostra, solo la letteratura di massa (romanzi gialli, di appendice, di fantascienza ecc.) dovrebbe evocare la nozione di genere che invece sarebbe
inapplicabile ai testi propriamente letterari. Una posizione simile ci obbliga a esplicitare i nostri fondamenti teorici. Davanti a ogni testo che
appartenga alla «letteratura», dovremo tener conto di una duplice esigenza. In primo luogo non dobbiamo ignorare che esso manifesta proprietà
comuni all’insieme dei testi letterari o ad uno dei sottoinsiemi della letteratura (che viene appunto chiamato un genere). Oggi è difficilmente
immaginabile che si possa difendere la tesi secondo la quale tutto, nell'opera, è individuale, prodotto inedito di una ispirazione personale, fatto
senza alcun rapporto con le opere del passato. In secondo luogo, un testo non è soltanto il prodotto di un procedimento combinatorio preesistente
(costituito dalle proprietà letterarie virtuali): è anche una trasformazione di questo procedimento. Possiamo quindi già affermare che ogni studio
della letteratura, che lo voglia o meno, parteciperà a questo duplice movimento: dell'opera verso la letteratura (o il genere), e della letteratura (del
genere) verso l’opera; privilegiare provvisoriamente l’una o l'altra direzione, la differenza o la somiglianza, è un modo di procedere perfettamente
legittimo. Perché allora sollevare questi problemi superati? Gerard Genette ha risposto in maniera pertinente: «Il discorso letterario si produce e si
sviluppa secondo strutture che non può trasgredire se non perché le trova ancora oggi nel campo del suo linguaggio e della sua scrittura». Perché
vi sia trasgressione, occorre che la norma sia sensibile. D'altra parte è dubbio che la letteratura contemporanea sia del tutto esente da distinzioni
generiche; caso mai, dette distinzioni non corrispondono più alle nozioni ereditate dal passato. È evidente che attualmente non abbiamo l'obbligo
di seguirle. Si manifesta anzi la necessita di elaborare categorie astratte che possano applicarsi alle opere odierne. Più in generale, non riconoscere
l'esistenza dei generi equivale a sostenere che l’opera letteraria non mantiene le proprie relazioni con le opere già esistenti. I generi rappresentano
appunto quel tramite, in virtù del quale l’opera si mette in rapporto con l’universo della letteratura.
Brano 3 (domande dalla 16 alla 20)
Altre forme di vita
L’origine della vita è uno dei grandi interrogativi della scienza. Nessuno sa dove o quando sia nata esattamente; l’unica cosa certa è
che la vita microbica era presente sulla Terra almeno tre miliardi e mezzo di anni fa. In mancanza di prove su ciò che c’era prima, c’è
ampio margine di discussione.
Trent’anni fa era opinione condivisa che la vita avesse avuto origine in seguito a un evento chimico così improbabile che
difficilmente avrebbe potuto verificarsi due volte nell’universo. Questa posizione fu sostenuta, tra gli altri, dal biologo e premio
Nobel Jacques Monod, che nel 1970 scrisse: "L’uomo sa di essere solo nell’arida immensità dell’universo, da cui egli stesso è emerso
per puro caso". Negli ultimi anni, però, l’atmosfera è cambiata radicalmente. Nel 1995 il biochimico belga Christian de Duve ha
definito la vita "un imperativo cosmico", e ha dichiarato che "è sostanzialmente destinata a svilupparsi" su qualsiasi pianeta simile
alla Terra. La dichiarazione di De Duve ha rafforzato la convinzione degli astrobiologi che l’universo sia brulicante di vita. Definita
"determinismo biologico" da Robert Shapiro dell’Università di New York, questa teoria è sintetizzata dalla frase "la vita è scritta
nelle leggi della natura".
Come si fa a stabilire qual è il punto di vista corretto? Il modo più diretto è cercare prove dell’esistenza di vita su un altro pianeta, per
esempio Marte. Se la vita ha avuto origine partendo da zero su due corpi dello stesso sistema planetario, l’ipotesi del determinismo
biologico sarebbe definitivamente confermata. Tuttavia potrebbe passare molto tempo prima che le missioni sul Pianeta Rosso siano
abbastanza sofisticate da andare a caccia di forme di vita marziane e, se esistessero, da studiarle in dettaglio.
Forse però c’è una strada più semplice per verificare il determinismo biologico. Nessun pianeta è più simile alla terra della Terra
stessa: se la vita mostra la tendenza a svilupparsi in condizioni terrestri, allora forse si è sviluppata più volte anche qui. Per esplorare
questa affascinante ipotesi, gli scienziati hanno concentrato l’attenzione su deserti, laghi e caverne alla ricerca di indizi di forme di
vita "aliene": organismi profondamente diversi da ogni altro essere vivente conosciuto perché sviluppatisi in modo indipendente.
Non c’è ancora accordo su una definizione univoca di "vita", ma la maggior parte degli scienziati concorda che due delle
caratteristiche principali di ciò che chiamiamo vita sono la capacità di metabolizzare (ricavare nutrienti dall’ambiente, convertirli in
energia ed espellere gli scarti) e di riprodursi.
La posizione ortodossa sulla genesi della vita sostiene che se la vita sulla Terra avesse avuto origine più di una volta una forma
vivente avrebbe rapidamente preso il sopravvento ed eliminato le altre. Questa "epurazione" sarebbe avvenuta, per esempio, se una
delle forme si fosse rapidamente appropriata di tutte le risorse disponibili o si fosse "coalizzata" contro una forma di vita più debole
scambiando i geni di successo esclusivamente all’interno della propria specie. Ma è una tesi debole. Batteri e archea, due tipi molto
diversi di microrganismi il cui antenato comune risale a più di tre miliardi di anni fa, coesistono pacificamente da allora. Inoltre non è
detto che le forme di vita alternative siano entrate in competizione diretta con gli organismi noti: forse gli alieni occupavano ambienti
estremi in cui i microrganismi a noi familiari non potevano sopravvivere, o forse avevano bisogno di risorse differenti.
Anche se la vita alternativa non esistesse più, può darsi che sia fiorita in un lontano passato per poi estinguersi. In questo caso, forse è
possibile individuarne le tracce nel registro geologico. Per esempio, se avesse avuto un metabolismo spiccatamente diverso, potrebbe
aver alterato le rocce o creato depositi minerali in modi non riconducibili nell’attività degli organismi noti. È persino possibile che i
biomarcatori, sottoforma di molecole organiche che non potrebbero essere state create dalla vita a noi familiare, siano celati in antichi
microfossili, come quelli scoperti in rocce che risalgono all’Archeano (oltre 2,5 miliardi di anni fa).
Un’eventualità più avvincente, ma anche più speculativa, è che forme di vita alternative siano ancora presenti nell’ambiente,
formando una sorta di "biosfera ombra". A prima vista l’idea può apparire assurda: se organismi alieni prosperassero sotto il nostro
naso (o magari dentro il nostro naso!) non li avremmo già scoperti? Non è detto. Gran parte degli organismi è costituita da microbi,
ed è quasi impossibile dire che cosa siano con una semplice osservazione al microscopio. Bisogna analizzare le sequenze genetiche di
un organismo per determinarne la posizione sull’albero della vita – la categorizzazione filogenetica di tutte le creature conosciute –
ed è stata classificata soltanto una minuscola frazione di tutti i microrganismi osservati.